(back)            (home)

 

UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

Facoltà di Giurisprudenza A.A. 1994-1995

L’INVERSIONE CONVENZIONALE DEL RISCHIO CONTRATTUALE

Relatore Prof. Angelo Luminoso                        Tesi di Laurea di Filippo Nissardi

(sommario)                                                                                                    (bibliografia)

(ABSTRACT)

A) REGIME LEGALE DEL RISCHIO CONTRATTUALE

1.     Lo scopo che ci si è proposti di conseguire è stato quello di costruire una teoria il più possibile omogenea del c.d. rischio contrattuale, genericamente definibile come quella probabilità negativa giuridicamente rilevante che trova la propria origine nel fatto rappresentato dal contratto.

2.     Più di preciso, si è ritenuto opportuno far coincidere il rischio contrattuale col pericolo determinato dal sopravvenire dell’impossibilità fortuita della prestazione in un contratto sinallagmatico produttivo di effetti obbligatori. Successivamente questa definizione è stata ampliata, così da ricomprendervi anche il pericolo relativo all’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.

3.     Come si è già visto, rischio è sinonimo di incertezza e probabilità, caratteri la cui presenza può essere garantita in linea di massima solamente dagli effetti contrattuali obbligatori. Questi ultimi presentano infatti un momento di pendenza, caratterizzato da una obiettiva e inderogabile incertezza, compreso tra il sorgere e l’adempimento dell’obbligazione. Viceversa deve dirsi per gli effetti reali, i quali si attuano in via immediata, avendo come unico presupposto formale l’incontro delle volontà dei contraenti secondo il principio di cui all’art. 1376 cod. civ. e che, pertanto, non pongono problemi di gestione del rischio.

4.     Altro aspetto della nozione delineata è quello del riferimento al sinallagma, che garantisce il carattere della bilateralità del rischio, per cui entrambe le parti si trovano in astratto sottoposte al medesimo pericolo [di subire una perdita patrimoniale] determinato dal venir meno della prestazione. La perdita potrebbe infatti indifferentemente ricadere sul debitore o sul creditore della prestazione impossibile, a seconda che in capo al primo persista o meno il diritto a ricevere la controprestazione.

5.     Lo studio del rischio contrattuale si risolve, dunque, fondamentalmente nell’esame dei criteri di individuazione del soggetto esposto alla conseguenza negativa dell’evento-rischio. Sotto il profilo della disciplina positiva vige, a tal proposito, la regola casum sentit debitor, enunciato dall’art. 1463 cod. civ. Norma ai sensi della quale la sopravvenuta impossibilità della prestazione determina la risoluzione del contratto, estinguendo ogni pretesa del debitore liberato e determinando, eventualmente, in capo alle parti il sorgere di obblighi restitutori.

6.     Si ritiene, tuttavia, possibile che il regime legale di distribuzione del rischio contrattuale possa essere invertito in un atto di autonomia privata, per mezzo di specifiche clausole determinanti la disapplicazione del sinallagma.

7.     L’ammissibilità di tali clausole non sembra possa essere messa in discussione. Del resto l’ordinamento già prevede, qualificandolo come alea per volontà delle parti, un meccanismo di disapplicazione convenzionale del sinallagma. L’argomento è offerto dagli artt. 1469 (sul contratto aleatorio per legge o per volontà delle parti) e 1472 comma 2° cod. civ. (sulla vendita di cosa futura, le cui parti possono accordarsi affinché il prezzo sia dovuto anche qualora il bene non venga ad esistenza).

8.     Sotto il profilo della liceità delle clausole di inversione del rischio, queste sono sottoposte in generale ai limiti ex artt. 1343-1345 cod. civ., ed in particolare a quello di cui all’art. art. 1341 (clausole vessatorie).

9.     Le clausole di inversione del rischio non paiono, inoltre, idonee a determinare l’atipicità di uno schema altrimenti tipico. Ad esempio, un contratto di locazione nel quale si pattuisce la persistenza dell’obbligo di pagare il canone anche a fronte del perimento della cosa locata rimarrà comunque tipico ai sensi dell’art. 1571 cod. civ., poiché vede pur sempre le parti accordarsi per scambiare il godimento di un bene contro un determinato corrispettivo. In altre parole, non sembra opportuno ricomprendere nel tipo anche l’ordinario regime dei rischi, giacché la funzione di questo concetto è solamente quella di ricollegare prontamente alla fattispecie una disciplina specifica.

B) GESTIONE DEL RISCHIO CONTRATTUALE NEL LEASING

1.     Anche la giurisprudenza si pronuncia per l’ammissibilità delle clausole di inversione del rischio contrattuale. In materia di leasing, ad esempio, è stata più volte ribadita la regolarità della clausola che addossa sull’utilizzatore (c.d. lessee) il rischio del perimento fortuito del bene avuto in godimento. Malgrado infatti l’impossibilità della prestazione del concedente (c.d. lessor), questo continua ad avere diritto alla controprestazione, costituita dai rimanenti canoni periodici.

2.     A ben guardare, tuttavia, una simile clausola non sembra potersi definire propriamente come limitativa del sinallagma. occorre a questo punto fare una premessa, giacché lo schema atipico del leasing si dimostra nella pratica assai flessibile, prestandosi ad essere adoperato per scopi anche molto diversi l’uno dall’altro. A seconda del diverso valore attribuito al bene concesso in godimento e dunque del diverso assetto degli interessi concretamente sottostanti al contratto, è infatti possibile individuare almeno tre differenti tipologie di leasing:

Ø un leasing con prevalente funzione di locazione, avente ad oggetto il valore d’uso di una cosa inconsumabile;

Ø un leasing con funzione di vendita a rate, avente ad oggetto il valore capitale della cosa. in tal caso, il canone periodico equivarrà ad una rata di prezzo, e l’esercizio dell’opzione di acquisto coinciderà col pagamento dell’ultima rata;

Ø un leasing in senso proprio, avente ad oggetto il valore di consumazione di una cosa a rapida obsolescenza tecnologica, la quale cioè, pur rimanendo fisicamente integra, al termine del suo utilizzo conserverà un valore di molto inferiore a quello originario, diminuito in virtù del trascorrere del tempo. È proprio su quest’ultima figura che occorre focalizzare l’attenzione.

3.     La prestazione del lessor consiste, dunque, nell’attribuzione del valore di consumo del bene al lessee. tale valore rappresenta un tertium genus rispetto al valore d’uso ed a quello capitale, e partecipa delle caratteristiche di entrambi. Pur potendo infatti essere acquistato dal lessee solamente tramite l’uso protratto, dalla parte del lessor esso viene trasferito integralmente ed istantaneamente al momento dell’esecuzione. Sotto tale aspetto, il criterio della proprietà formale vale a poco poiché, come si è già detto, al termine dell’utilizzo la cosa avrà comunque un valore irrisorio. Perciò è stato detto che il diritto acquistato dall’utilizzatore corrisponde ad una proprietà sostanziale del bene.

4.     In conclusione, una volta accertata la particolare natura del diritto di cui nel leasing è titolare l’utilizzatore, sembra lecito porre in dubbio la naturale applicabilità alla fattispecie della norma riguardante gli effetti contrattuali obbligatori (art. 1463 cod. civ.). Tenendo conto del suesposto concetto di proprietà sostanziale, la clausola – ormai divenuta di stile – pare piuttosto rappresentare una regolare applicazione (per via analogica) del principio res perit domino, espresso dall’art. 1465 in materia di contratti avente ad oggetto diritti reali.

C) NATURA ALEATORIA DELLE CLAUSOLE DI INVERSIONE DEL RISCHIO

1.          È data una nozione ampia di rischio, comprendente anche il pericolo di una perdita derivante dall’eccessiva   onerosità sopravvenuta della prestazione.

2.           L’inversione del rischio non può trovare posto nella categoria della c.d. estensione convenzionale dell’alea normale, la quale non ha in effetti ragion d’essere.

Tale concetto si considera, infatti, idoneo a spiegare le ipotesi in cui le parti intendano non già eliminare del tutto, bensì ridefinire entro certa misura il metro della tollerabilità e della normalità degli squilibri contrattuali (es.: l’appalto nel quale si sia pattuita un’estensione dell’alea normale dal 10% al 25%, rispetto ai casi previsti nell’art. 1664 cod. civ., continua ad essere risolubile per squilibri che eccedono la percentuale prevista).

Ma da quanto già osservato emerge che il contratto aleatorio non, è in quanto tale, per forza sottratto a qualsiasi azione di risoluzione. Si prenda come esempio l’emptio spei: per prima cosa, niente impedisce astrattamente ad alienante ed acquirente di mantenere l’alea rispetto alla prestazione principale (trasferimento del diritto) e di escluderla rispetto alla prestazione accessoria di procurare l’acquisto all’acquirente, cosicché il contratto possa risolversi per impossibilità sopravvenuta o per eccessiva onerosità dell’obbligo di cui all’art. 1476 n.2 cod. civ. Eppure il contratto continuerebbe ad essere aleatorio ai sensi dell’art. 1472 cod. civ. La vendita, infatti, non è nulla se la cosa non viene ad esistenza (per impossibilità della prestazione principale).

3.           Natura aleatoria delle clausole di inversione del rischio:

Così come l’inversione del rischio, anche l’alea determina una compressione del sinallagma.

Sotto il profilo tecnico l’alea riguarda, inoltre, anche l’impossibilità della prestazione (arg. ex art. 1472 2° c. cod. civ.).

L’immediato collegamento tra inversione del rischio e probabilità che la prestazione diventi eccessivamente onerosa (arg. ex art. 1469 cod. civ.) non esclude, infatti, una sua riferibilità allo stesso pericolo di impossibilità sopravvenuta. Ogni volta che il contraente assume su di sé il pericolo di impossibilità sopravvenuta della prestazione, è giocoforza rilevare l’esistenza di un analogo patto implicito rispetto al pericolo di eccessiva onerosità, costituendo semplicemente la seconda una “situazione meno grave” della prima.

4.           Scommessa e assicurazione non sono contratti aleatori in senso proprio, e la loro disciplina non frappone ostacoli alla teoria che si va ad esporre.

        Si ritiene, infatti, superfluo considerare aleatori (per natura) i contratti di assicurazione e scommessa, i quali risultano assoggettati ad una disciplina specifica.

        Rispetto alla scommessa, il problema è risolto in partenza dagli artt. 1933 e 1934 cod. civ., che rispettivamente considerano il debito di gioco come obbligazione naturale ed ammettono un potere in capo al giudice di negare o ridurre la prestazione.

        Quanto all’assicurazione, la clausola iniqua che rientrasse astrattamente nel raggio d’azione dell’art. 1448 cod. civ. sarebbe automaticamente sostituita ex art. 1339 cod. civ. da quella prevista dalla disciplina pubblicistica in materia, mentre la questione della risoluzione è evitata a priori dalla disciplina di cui agli artt. 1897-1898 cod. civ.

        Resta invece aleatoria per natura la rendita vitalizia, ma non perché la sua durata sia legata all’esistenza in vita del vitaliziato, bensì in virtù della sua non risolubilità per eccessiva onerosità della prestazione (art. 1879, comma 2°, cod. civ.).

5.           In realtà, l’alea non introduce nel rapporto rischi diversi da quelli naturalmente insiti in qualunque negozio sinallagmatico produttivo di effetti obbligatori e ad esecuzione non istantanea. Essa può invece riassumersi come quella situazione che vede un soggetto rinunciare preventivamente, in tutto o in parte, ai mezzi di tutela che gli spetterebbero nell’ipotesi in cui si verificasse una circostanza generatrice dell’evento-rischio.

        Si può, in definitiva, concludere:

        a) che è aleatorio (sotto un profilo funzionale) quel contratto cui accede una clausola che inverte in tutto o in parte il rischio contrattuale lato sensu, a prescindere dal contenuto delle altre clausole, e

        b) che la differenza tra casi in cui si esclude del tutto il rimedio della risoluzione e casi in cui lo stesso è disattivato solo entro un certo margine di squilibrio è meramente quantitativa, e perciò non tale da legittimare l’esistenza di distinte categorie concettuali.

(top)            (back)            (home)